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    30Mag

    “GIOCHIAMO INSIEME?”

    by Sara Zanolini - Neuropsicomotricista

    L’IMPORTANZA DELLA RELAZIONE CON I PARI PER LO SVILUPPO DEL BAMBINO

    Uno dei compiti più importanti e, allo stesso tempo, più complessi che ciascun bambino deve affrontare nel corso del suo sviluppo è sapersi relazionare con i coetanei. Infatti, la relazione con l’altro richiede al bambino una serie di abilità essenziali (e non scontate), tra le quali comprendere le intenzioni del pari, saper regolare le proprie emozioni, utilizzare una comunicazione verbale e non verbale appropriata, comprendere le conseguenze delle proprie azioni…

    Quando e come il bambino si relaziona con i pari?

    Nei primi anni di vita, il bambino interagisce principalmente con le figure adulte ma, già a partire dai 2-3 anni, quando i bambini possono scegliere se rivolgersi agli adulti o ai coetanei, esprimono una maggiore preferenza verso questi ultimi. Le prime interazioni di gioco avvengono infatti verso i 2- 2.5 anni, tramite giochi in parallelo: il bambino cioè gioca accanto ad altri bambini ma non con loro. Tra i 2 e i 4 anni, si passa da attività in parallelo a giochi di finzione con i pari o giochi cooperativi, nei quali i bambini interagiscono per perseguire degli scopi comuni. Nel periodo prescolare, le attività di gruppo diventano sempre più complesse e articolate, favorite da una progressiva capacità di comunicare i propri desideri, aspettative e intenzioni, oltre che dallo sviluppo delle capacità simboliche e cognitive. Dai 4 anni, i bambini svolgono con i pari principalmente giochi simbolici e di ruolo, comprendono la necessità di condividere e sono in grado di fare a turno. Verso i 5 anni, è presente una maggiore collaborazione nei giochi con i coetanei e comprensione della necessità di avere e rispettare delle regole. Le relazioni con i pari diventano sempre più selettive e i bambini scelgono i propri amici soprattutto in base alla condivisione di interessi e attività. Dall’età scolare invece, il bambino si integra progressivamente nella scuola e nel gruppo dei pari, sviluppando maggiori competenze relazionali e imparando a gestire i conflitti.

    Il ruolo dell’interazione con i pari nello sviluppo

    La relazione con i coetanei è di fondamentale importanza per la crescita e l’evoluzione di ciascun bambino:

    • Sviluppo cognitivo e apprendimento. La relazione con i pari è una delle modalità principali di apprendimento e quindi di acquisizione di nuove abilità e competenze.
    • Sviluppo emotivo. La relazione con l’altro permette al bambino di comprendere le proprie emozioni e quelle altrui, imparare a gestire i conflitti e la frustrazione.
    • Sviluppo sociale. Interagendo con il pari, il bambino impara a collaborare e acquisisce importanti competenze sociali (ad esempio, rispettare le regole, fare a turno, trovare accordi…).

    Neuropsicomotricità con i pari

    La neuropsicomotricità promuove l’interazione con i coetanei, l’acquisizione di nuove abilità e lo sviluppo di competenze sociali tramite interventi in piccolo gruppo. Essi possono essere di tipo educativo (rivolti a tutti i bambini e realizzati in strutture extrascolastiche o inseriti nella programmazione delle scuole), di tipo preventivo (rivolti a bambini che presentano alcune fragilità, al fine di prevenire situazioni ad evoluzione negativa) oppure di tipo terapeutico (rivolti a bambini che presentano delle difficoltà accertate, sulle quali è importante lavorare).

    La neuropsicomotricità si avvale di un contesto ridotto, cioè un gruppo composto da pochi partecipanti, in quanto offre maggiori occasioni di interazione tra i componenti, consente di considerare i bisogni dei singoli, favorisce l’organizzazione di attività tarate sugli interessi e sulle necessità di ciascun membro. La relazione con i pari può essere la finalità dell’intervento oppure la modalità che permette di lavorare su determinate aree dello sviluppo e competenze.

    Pagina del servizio di riferimento

    Se ti interessa questo argomento potresti trovare utile la pagina della Neuropsicomotricità Individuale.

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    30Apr

    ASPETTI EMOTIVI E DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO

    by Valeria Zorzin - Psicologa

    Nel corso degli ultimi anni si è sentito parlare sempre di più di Disturbi specifici dell’Apprendimento, chiamati più comunemente con la sigla DSA.

    L’interesse generale, molto spesso, verte attorno alle procedure diagnostiche, alle modalità di intervento per il potenziamento o l’uso degli strumenti compensativi per migliorare l’autonomia di bambini e ragazzi a livello scolastico.

    Un aspetto altrettanto importante, anche se talvolta messo in secondo piano, è quello delle implicazioni a livello emotivo e motivazionale connesse alla presenza di disturbi dell’apprendimento.

    Diversi studi hanno individuato diversi effetti sulla sfera emotivo-motivazionale in presenza di disturbi dell’apprendimento. Nello specifico, sono state riscontrate importanti differenze nei bambini e ragazzi con DSA rispetto ai loro compagni in molteplici aree, come:

    • Ansia scolastica  si rileva che il 70% degli studenti con DSA sperimenta sintomi d’ansia, quali pensieri anticipatori di insuccesso, paura di sbagliare e di fallire, timore del giudizio da parte dei compagni e un eccessivo criticismo nei propri confronti;
    • Regolazione delle emozioni  gli studenti con DSA tendono ad avere delle strategie meno efficaci per gestire i propri vissuti emotivi, come l’incertezza o la paura di non riuscire ed utilizzano prevalentemente risposte di tipo passivo o aggressivo;
    • Autostima scolastica  si registrano livelli inferiori di autostima negli studenti con DSA rispetto ai pari con sviluppo tipico, in particolare nell’ambito scolastico. Ciò è dovuto spesso ai vari insuccessi che i ragazzi sperimentano e dallo scarso apprezzamento mostrato dagli altri, con voti o riconoscimenti non soddisfacenti;
    • Autoefficacia scolastica  bambini e ragazzi con DSA tendono a reputarsi meno capaci di affrontare i compiti o le situazioni di apprendimento con successo rispetto ai propri compagni;
    • Resilienza  gli studenti con DSA tendono ad abbattersi e a svalutarsi più facilmente di fronte agli insuccessi e alle frustrazioni e a mostrare reazioni ansiose di fronte alle difficoltà. Tale aspetto è legato alla percezione di sé come persona di valore e abile, che risulta essere piuttosto carente nei bambini e ragazzi con disturbi dell’apprendimento.

    Un ulteriore aspetto cruciale riguarda le convinzioni di modificabilità circa la propria intelligenza e le proprie modalità di apprendimento. A tal proposito si distinguono due diversi approcci: una convinzione detta entitaria, caratterizzata dalla credenza che la propria intelligenza non possa evolvere né migliorare nonostante lo sforzo o l’impegno, che si distingue dalla convinzione definita incrementale, secondo cui l’esperienza e l’impegno possono portare a dei miglioramenti e a delle modificazioni positive della propria intelligenza e delle proprie abilità.

    Le ricerche evidenziano che gli studenti con DSA possiedono tendenzialmente una convinzione di tipo entitario, per cui si convincono del fatto che “sono fatto così e non potrò mai cambiare, nemmeno se mi impegno”.

    A ciò si aggiunge uno stile attributivo (cioè la modalità con cui una persona abitualmente spiega il successo e l’insuccesso) spesso poco funzionale, che attribuisce il successo a fattori esterni, come la fortuna o la facilità di un compito, e invece l’insuccesso viene spiegato come una mancanza di abilità. L’insieme di questi aspetti può portare frequentemente ad un circolo vizioso che prende il nome di impotenza appresa, che si esprime chiaramente con frasi del tipo “Tanto non sono capace, è inutile che ci provo” o “Non posso farci nulla, non è colpa mia, non ci provo nemmeno”.  In questo circolo, quindi, le difficoltà e i numerosi insuccessi sperimentati dagli alunni con DSA portano alla convinzione di non essere in grado di farcela e di non poter migliorare in alcun modo, ciò porterà a sua volta ad una riduzione dell’impegno e talvolta ad un evitamento del compito, conducendo nuovamente ad una prestazione inadeguata e quindi ad una conferma delle proprie credenze iniziali di incapacità e inadeguatezza.

    Se il vostro bambino, sin dai primi anni della scuola primaria, manifesta difficoltà nell’acquisizione degli apprendimenti di base, quali la lettura, la scrittura e le abilità matematiche o se sospettate la presenza di un possibile disturbo dell’apprendimento, è importante procedere con una valutazione neuropsicologica e degli apprendimenti per individuare precocemente le aree di difficoltà e intervenire con un percorso di potenziamento individualizzato e mirato. In questo modo, infatti, è possibile aiutare i bambini e i ragazzi a conoscere il proprio funzionamento e ad accettare le proprie caratteristiche, acquisendo strategie e strumenti per compensare le difficoltà, per favorire la propria autonomia e sperimentare maggiori successi, sostenendo così l’autostima e favorendo un maggiore senso di autoefficacia scolastica.

    La presa in carico dell’alunno con DSA e della famiglia da parte di un professionista degli apprendimenti è fondamentale per disinnescare questi meccanismi cognitivi ed emotivi disfunzionali, per favorire il benessere generale e garantire un percorso di apprendimento positivo.

    Bibliografia

    C. Cornoldi, “I disturbi dell’apprendimento – seconda edizione”, il Mulino

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    2Apr

    GIOCO E LINGUAGGIO: due sviluppi intrecciati

    by Greta Meneghini - Logopedista

    Come tutti gli ambiti di sviluppo del bambino, anche il gioco si modifica nel tempo e si osserva un graduale aumento delle competenze richieste sia dal punto di vista “motorio” che “cognitivo”.

    I primi comportamenti di gioco osservabili riguardano l’esplorazione orale e la manipolazione semplice, in cui il bambino porta gli oggetti alla bocca o li manipola con semplici azioni, che gli permettono di conoscere ad esempio la forma, la consistenza e la temperatura dei diversi oggetti. Successivamente si passa al gioco funzionale, in cui il bambino impara ad utilizzare una manipolazione specifica rispetto agli oggetti coinvolti, ad esempio premere i tasti di un telefono-giocattolo o far correre una macchinina, associando in questo modo la forma del gioco in questione alla sua funzione.

    Il livello di sviluppo successivo è rappresentato dal gioco di finzione semplice, con comportamenti di gioco di finzione compiuti verso di sé e/o gli altri (ad esempio far finta di bere dalla tazza o dare da bere con la tazza alla bambola) ed infine al gioco di finzione complessa, che rappresenta il livello più alto di astrazione e simbolizzazione e comprende azioni come le sostituzioni degli oggetti coinvolti (ossia far finta di bere da un cappello ad esempio) e le attività di gioco simbolico combinatorio, in cui si susseguono attività di finzione singole e in sequenza, rappresentando le stesse azioni in maniera sempre diversa.

    In particolare, quest’ultimo livello di sviluppo del gioco, il cosiddetto gioco di finzione o gioco simbolico, è altamente correlato al linguaggio.

    L’alta correlazione è legata al fatto che durante le azioni compiute con gli oggetti il bambino è portato a produrre vocalizzi, parole e/o frasi (in base all’età e al livello di sviluppo del linguaggio), a cui il caregiver di riferimento, che condivide con il bambino il momento di gioco, può dare dei feedback di ripetizione, espansione, estensione etc., che fungono da importanti modelli per la comprensione e la successiva produzione del linguaggio.

    In particolare il gioco simbolico è correlato ad un livello specifico del linguaggio, ossia la competenza narrativa. Con questa condivide lo stesso percorso evolutivo: come il gioco simbolico inizialmente è costituito da una combinazione casuale di azioni, che diventano poi sequenze ordinate, per rappresentare infine eventi quotidiani, allo stesso modo la competenza narrativa passa dalla descrizione di eventi non correlati tra loro, a sequenze di azioni correlate ma non orientate a uno scopo, fino ad eventi orientati da uno scopo comune.

    Anche a livello teorico gioco simbolico e competenza narrativa sono altamente collegati, in quanto in entrambi i casi il bambino deve separare l’entità reale e quella mentale: nel gioco simbolico e nella narrazione ci si riferisce sempre a soggetti/azioni etc. non realmente presenti in quel momento, si assumono ruoli non reali e si comprendono i punti di vista dei diversi personaggi.

    È per tutta questa serie di motivi che risulta molto importante favorire l’attività ludica dei nostri bambini già entro l’anno di vita, in tutti i contesti quotidiani, in quanto assistere e sperimentare comportamenti verbali e non verbali che permettono al bambino di prestare attenzione e apprendere informazioni sull’uso degli oggetti, comporta lo sviluppo di comportamenti di gioco sempre più elaborati e un conseguente progresso delle abilità cognitive generali, tra cui anche il linguaggio.

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    28Feb

     Gli attacchi di panico: uno “tsunami” emotivo

    by Ilaria Girlanda - Psicoterapeuta

    “Carla ha seriamente pensato di morire quando, trovandosi alla guida della sua auto, ha improvvisamente sentito il cuore che batteva all’impazzata, uno strano formicolio agli arti, vampate di calore e una sensazione di stordimento. Spaventata, ha subito chiesto al marito di prendere il suo posto alla guida e di farsi accompagnare in pronto soccorso, convinta che le stesse per venire un infarto. I medici, dopo aver fatto le opportune indagini ed escluso la presenza di un problema al cuore, hanno parlato di sintomi tipici dell’attacco di panico.“

    Un attacco di panico è un vero e proprio “tsunami” emotivo: consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si possono verificare diversi sintomi quali: tachicardia, sudorazione, tremori, sensazione di affanno o mancanza d’aria, sensazione di soffocamento, dolore al petto, nausea, vertigini, vampate di calore, sensazione di formicolio, derealizzazione (percezione distorta della realtà) o depersonalizzazione (sentirsi separato da sé), paura di perdere il controllo, paura di morire (DSM 5).

    Avere un attacco di panico una volta nella vita è un’esperienza comune ma per parlare di Disturbo di Panico è necessario che ci siano attacchi ricorrenti e inaspettati accompagnati da una preoccupazione persistente per nuovi attacchi o per le loro conseguenze e/o da una significativa alterazione del comportamento. “Carla iniziò guidare sempre meno e a farlo solo se accompagnata dal marito, ciò le causò non poche difficoltà al lavoro e in famiglia.“

    Insieme al disturbo di panico spesso troviamo un’altra condizione clinica chiamata agorafobia: una paura marcata e persistente di trovarsi in luoghi o situazioni, come essere in mezzo alla folla, in uno spazio chiuso o da soli fuori casa, dai quali sarebbe difficile allontanarsi o dove potrebbe non essere disponibile aiuto in caso di sintomi tipo panico o altri sintomi invalidanti o imbarazzanti (ad es. la paura di vomitare). La persona fa di tutto per prevenire o ridurre al minimo il contatto con tali situazioni agorafobiche. Esistono differenze nel grado di intensità del disturbo, nei casi gravi la persona può trovarsi a non uscire più di casa.

    Le persone che soffrono di un disturbo di panico non imparano solo a evitare le situazioni che temono possano innescare un attacco, ma si spaventano così tanto delle sensazioni fisiche del panico da concentrare costantemente la loro attenzione proprio su quelle: “ad ogni piccola “strana” sensazione, un doloretto o un’oppressione al torace, Carla pensava subito che il suo cuore fosse danneggiato e per essere sicura di star bene monitorava il suo corpo prendendosi il polso più volte al giorno.“

    Il modello cognitivo standard del panico di Clark spiega bene come gli attacchi di panico si verifichino quando la persona percepisce alcune sensazioni corporee e mentali innocue legate all’attivazione neurovegetativa come molto pericolose, cioè le interpreta quali segnali di un’imminente e improvvisa catastrofe (segno di morte, pazzia o perdita di controllo). Il modello presuppone che le persone più vulnerabili al disturbo abbiano una caratteristica di personalità particolare, una elevata “sensibilità all’ansia” ovvero la tendenza a spaventarsi molto dei sintomi fisici dell’ansia stessa (battito accelerato, nausea, sensazione di “fame d’aria”, ecc.).

    “Carla aveva imparato che non stava avendo un infarto quando sentiva oppressione al petto e che probabilmente era solo ansia, ma non riusciva a non farsi trascinare dal flusso dei pensieri: “e se stavolta fosse un problema al cuore?”, “e se i sintomi non mi passano più?”, “e se mi venisse un attacco di panico proprio ora?”. Quei “e se…” erano i primi pensieri che le venivano in mente quando notava delle sensazioni fisiche indesiderate“. Ed è proprio questo modo di pensare a essere responsabile del mantenimento del disturbo, insieme all’evitamento, alla fuga e alla ricerca di sicurezza che vengono messi in atto per “proteggersi” dagli esiti temuti ma che in realtà non consentono alla persona di disconfermare le proprie credenze erronee.

    “Carla ben presto iniziò a provare molta tristezza e senso di colpa perché non riusciva più a condurre la sua vita come prima: vedeva come il disturbo interferisse nelle sue relazioni familiari e sociali e come le impedisse di fare quello che desiderava con un impatto significativo sulla qualità della sua vita.“

    In merito ai trattamenti psicologici, le linee guida APA (American Psychiatric Association) costatano che l’utilizzo della Terapia Cognitiva Comportamentale è fortemente raccomandata da numerosi studi di trial clinici. In genere questo tipo di terapia prevede la psicoeducazione, l’auto monitoraggio, l’esposizione agli stimoli ansiosi, la modifica dei meccanismi di mantenimento del disturbo e la prevenzione delle ricadute. Anche la Terapia Cognitiva-Comportamentale di gruppo può avere dei benefici; il gruppo può essere un aiuto che rafforza la fiducia in se stessi e la possibilità di attivare nuove risorse per il cambiamento.

    Presso lo Studio le Metamorfosi c’è la possibilità di avviare percorsi di psicoterapia cognitiva comportamentale individuale o in piccolo gruppo per il trattamento delle problematiche di ansia e di panico.

    Non esitare a contattarci, gli attacchi di panico possono essere gestiti, l’importante è fare il primo passo e cercare supporto.

    Bibliografia:

    • “Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni”, David A. Clark e Aaron T. Beck, Positive Press 2016
    • “Elementi di psicoterapia cognitiva”, C. Pertighe e F. Mancini, Giovanni Fioriti Editore 2010
    • “Le linee guida per il trattamento psicologico del disturbo da attacchi di panico e del disturbo d’ansia generalizzata: una panoramica”, G. Rogier, F. Mancini Cognitivismo Clinico 2021

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    31Gen

    QUALI SONO I PRE-REQUISITI PER LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO?

    by Letizia Cocco - Logopedista

    In più occasioni abbiamo affrontato il tema dello sviluppo del linguaggio: quando compaiono i diversi suoni e che strategie attivare per stimolarlo al meglio.

    Un adeguato sviluppo del linguaggio verbale è tuttavia, supportato da diverse competenze, che emergono e si raffinano ancor prima della comparsa delle primissime paroline.

    Stiamo parlando dei PRE-REQUISITI COMUNICATIVI. Tali abilità sono fondamentali nello sviluppo psicomotorio e comunicativo del bambino, in quanto gli consentono di richiedere o condividere momenti ed interessi, farsi capire, esprimere bisogni e sperimentare situazioni ed emozioni, quando ancora non è in grado di produrre parole e frasi.

    In questo articolo, esploreremo i principali prerequisiti al linguaggio verbale, tra cui: l’attenzione condivisa, il contatto oculare, l’intenzionalità comunicativa, l’imitazione e altre abilità cruciali per la crescita linguistica.

    • CONTATTO OCULARE:

    Il contatto oculare è una delle prime forme di comunicazione non verbale che il bambino impara a utilizzare. Esso svolge un ruolo cruciale nel creare un legame emotivo, richiamare l’attenzione e nel segnalare l’intenzione a voler interagire.

    Un bambino che stabilisce e mantiene il contatto oculare con un adulto gli dimostra infatti, di essere pronto a stabilire e mantenere una connessione reciproca durante l’interazione.

    • ATTENZIONE CONGIUNTA

    L’attenzione congiunta (= guardare insieme verso) su una persona, un oggetto o un evento rappresenta un importante prerequisito per il normale sviluppo cognitivo del bambino, in particolare per lo sviluppo del linguaggio, per lo sviluppo delle abilità relazionali e per la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro. 

    Quando un adulto e un bambino si scambiano sguardi e/o gesti verso lo stesso oggetto o evento, il bambino acquisisce consapevolezza che ciò che l’adulto sta osservando è significativo e rilevante.

    Questo scambio facilita il processo di apprendimento linguistico, poiché l’adulto può associare le parole agli oggetti in presenza, riconoscere i bisogni o l’interesse del bambino e di conseguenza condividerli e verbalizzarli.

    • IMITAZIONE

    I bambini apprendono molte delle loro prime competenze linguistiche osservando e imitando gli altri. L’imitazione di gesti, suoni e parole è un processo che facilita l’acquisizione del linguaggio verbale e la costruzione di un proprio repertorio linguistico.

    E’ infatti proprio imitando l’altro, che il bambino può apprendere le strutture fonotattiche e grammaticali della lingua madre e le diverse regole comunicative.

    • INTENZIONALITA’ COMUNICATIVA

    L’intenzionalità comunicativa si riferisce alla capacità di un bambino di usare segnali (come gesti, suoni o vocalizzazioni) per esprimere un desiderio, un bisogno o un pensiero. Anche prima di sviluppare il linguaggio verbale, i bambini comunicano in modo intenzionale attraverso segnali non verbali: un bambino può piangere quando ha fame, alzare le mani per essere preso in braccio o indicare un oggetto.

    Questo comportamento è una pietra miliare nello sviluppo del linguaggio, poiché segna il passaggio dal comportamento reattivo (come il pianto per il bisogno) a quello proattivo, in cui il bambino inizia a utilizzare segnali per influenzare gli altri.

    Nel momento in cui il bambino riconosce che i suoi segnali producono una risposta, comprende che la comunicazione è uno scambio attivo e reciproco.

    • INDICAZIONE

    L’indicazione è uno dei primi gesti comunicativi che i bambini imparano a utilizzare. Si tratta di un atto intenzionale attraverso cui il bambino punta un oggetto/una direzione con il dito per attirare l’attenzione dell’adulto o di un altro interlocutore.

    Questo gesto non solo rappresenta un bisogno o una curiosità del bambino, ma serve anche a stabilire una connessione sociale, segnando il passaggio dal comportamento reattivo a quello proattivo nella comunicazione.

    Ancora prima del linguaggio verbale l’indicazione (e poi in un secondo momento altri gesti comunicativi più complessi) permette al bambino di comunicare un bisogno, richiedere qualcosa, condividere un evento o comunicare un proprio interesse.

    • GIOCO SIMBOLICO

    Per gioco simbolico si intende quella modalità di gioco in cui il bambino rappresenta attraverso il materiale che ha a disposizione, qualcosa che non è presente realmente.

    Tramite il gioco simbolico il bambino sviluppa una prima forma di pensiero astratto, in quanto può utilizzare oggetti per esprimere idee che vanno oltre la realtà immediata (es: far finta di combattere con una spada usando un bastone, utilizzare un cubetto delle costruzioni al posto del telefono).

    E’ proprio giocando a far finta che i bambini cominciano a comprendere la funzione simbolica del linguaggio verbale ed iniziano ad associare ad oggetti e concetti (emozioni o stati fisici) dei suoni e poi delle etichette lessicali, creando una base forte per lo sviluppo linguistico.

    E ALLORA….

    Sostenere e stimolare queste competenze sin dai primi mesi di vita del bambino, facilita lo sviluppo di un linguaggio verbale ricco e funzionale.

    I genitori, gli educatori e i professionisti del settore (logopedista, neuropsicomotricista..) possono svolgere un ruolo cruciale nell’osservare e promuovere questi prerequisiti, creando un ambiente favorevole all’apprendimento linguistico e alla crescita sociale ed emotiva del bambino.

    Se il linguaggio verbale non emerge nei tempi previsti, è fondamentale indagare queste abilità, che potrebbero non essersi maturate in modo adeguato ed armonioso.

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    28Nov

    SCRIVERE NON È UN GIOCO DA RAGAZZI!

    by Sara Zanolini - Neuropsicomotricista

    La scrittura è l’atto fino motorio più complesso che l’essere umano possa compiere e, pertanto, è piuttosto difficile da imparare e realizzare. Infatti, essa non è un processo automatico e innato, ma deriva da un apprendimento.

    Basti pensare che il “semplice” scrivere richiede in realtà un adeguato controllo posturale, capacità di utilizzare le varie componenti dell’arto superiore (spalla, gomito, polso e dita), adeguamento alle richieste esterne, attenzione ed una motivazione ad apprendere. Proprio per la sua complessità, l’apprendimento della scrittura richiede una serie di abilità indispensabili, dei prerequisiti.

    QUALI SONO I PREREQUISITI DELLA SCRITTURA?

    • Abilità motorie. In particolare le competenze relative la motricità fine, la coordinazione oculo-manuale, una buona conoscenza dello schema corporeo, la dominanza laterale
    • Abilità visuo-percettive. Per esempio, discriminare elementi uguali e diversi, distinguere la figura dallo sfondo, saper riprodurre modelli.
    • Abilità visuo-spaziali. Per esempio, capacità di utilizzare lato destro e sinistro in maniera coordinata, comprendere la posizione degli oggetti e le distanze tra loro e dal proprio corpo, sapersi orientarare nello spazio.
    • Memoria e attenzione

    È fondamentale promuovere queste abilità fin dalla scuola dell’infanzia, attraverso giochi e attività adeguati all’età del bambino.

    È DAVVERO IMPORTANTE SCRIVERE A MANO?

    Sì, gli studi più recenti delle neuroscienze sottolineano l’importanza della scrittura a mano: il gesto grafico permette di attivare aree cerebrali più vaste e profonde rispetto alla digitazione delle lettere sulla tastiera.

    La spiegazione risiede proprio nella “fatica” che esso richiede: scrivere a mano necessita di una cooperazione tra pensiero, azione e vista e dunque un’integrazione tra di essi, che è alla base della memoria. Inoltre, incentiva il pensiero creativo. Scrivere a mano è dunque un vero e proprio esercizio per tutto il corpo.

    È importante ribadire però che questo non si deve tradurre in un’eliminazione della scrittura digitale, anzi, essa è una competenza altrettanto importante al giorno d’oggi. È invece fondamentale non abbandonare completamente la scrittura manuale, ma continuare a praticarla e stimolarla.

    PREVENZIONE DELLE PROBLEMATICHE DI SCRITTURA E ALCUNI SUGGERIMENTI

    Come riportato precedentemente, è possibile lavorare in ottica preventiva già a partire dai primi anni della scuola dell’infanzia, con attività più approfondite e specifiche negli ultimi mesi che precedono l’ingresso alla scuola primaria. Attività come:

    • i percorsi motori sono un’attività molto versatile, che si presta a molteplici variazioni e consente di sollecitare abilità quali equilibrio, coordinazione, percezione corporea.
    • Il disegno di sé sviluppa invece la rappresentazione e lo schema corporeo;
    • i giochi con le mollette o le pinze sono molto utili per allenare le competenze di motricità fine.
    • Il gioco di imitare la posizione dell’altro richiede l’utilizzo di competenze visuo-spaziali e attenzione.

    Dunque, esistono moltissime attività da inventare o ricreare, da proporre in base all’età del bambino e da personalizzare rispetto i suoi interessi.

    In caso si rilevassero difficoltà grafomotorie o si volesse potenziare la scrittura e le abilità ad essa correlate, è possibile rivolgersi al Neuropsicomotricista, in quanto figura specializzata anche nella prevenzione e nella riabilitazione delle abilità grafomotorie.

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